Guida storico artistica

Tratto dal libro La Chiesa di San Bartolomeo Apostolo in Rovigo. Guida storico artistica di Antonio Romagnolo, I.P.A.G. Rovigo 1997

Si ringraziano gli studenti Sofia Suarez, Giulia Pacchin, Claudia Masin, Silvia Sandri, Chiara Veronese, Anthony Santato, seguiti dalle professoresse Cristina Ferrari e Daniela Sandri dell’Istituto Secondario di Stato Edmondo De Amicis nell’ambito del Progetto Alternanza Scuola/Lavoro 2019

Comune di Rovigo Parrocchia di San Bortolo
Con piacere presentiamo la “Guida storico-artistica” della Chiesa di San Bartolomeo Apostolo in Rovigo. Tale opera viene incontro ad una esigenza e molto sentita non solo nell’ambito culturale e formativo del nostro Quartiere e della Città di Rovigo, ma anche da parte di visitatori che abbastanza numerosi sostano sorpresi ed estasiati dalle linee architettoniche e dalle preziose decorazioni della nostra Chiesa, che rappresenta la parte eletta del prestigioso Monastero. La pubblicazione, che si presenta con decoro iconografico e con rigoroso e autorevole commento del dott. Antonio Romagnolo, è nata dalla collaborazione tra la Circoscrizione N.4 e la Parrocchia di San Bartolomeo, e si avvale, per la realizzazione dell’intervento della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, che ringraziamo vivamente per la sensibilità e l’attenzione manifestate. L’auspicio è che tale opera possa essere un contributo prezioso per conoscere e amare la nostra Chiesa ed anche uno stimolo per “conservarla” in tutto il suo splendore, facendoci comprendere sempre più l’armonia che deve esistere fra arte e culto nella vita della nostra Chiesa.

La storia

Una comunità di monaci Umiliati si stabilisce a sud di Rovigo, fuori dalle mura, verso la metà del secolo XIII, favorita da elargizioni di un certo frà Paglia, descritto nei documenti come “patronus loci fratrum humiliatorum”. Questi il 10 giugno 1254 ottiene dal vescovo Guglielmo d’Este il permesso di costruire una chiesa “ad onere Dei et virginis Marie et beati Bartholomei apostoli”. La piccola comunità è formata da laici e si sostiene con la lavorazione della lana. Alla fine del secolo XIII cessa l’attività artigianale e si afferma la vita monastica.
La comunità religiosa che si costituisce, formata da un numero massimo di cinque monaci, diventa prepositura nel secolo successivo e verso la fine scompare. Rimangono però attivi gli organi del monastero fino al 21 Ottobre 1474, quando papa Sisto IV decreta la soppressione della prepositura degli Umiliati e introduce la congregazione benedettina di Monte Oliveto.
L’annessione agli Olivetani è favorita dal cardinale Bartolomeo Roverella con la rinuncia della “commenda” del monastero ricevuta nel 1444 quando era vescovo di Adria. Il cardinale Roverella era fratello di Nicolò, abate generale della congregazione olivetana. Il monastero di San Bartolomeo veniva posto sotto la giurisdizione di quello di San Giorgio di Ferrara. Con gli Olivetani avviene la ristrutturazione degli edifici. Nel 1478 viene sistemata la chiesa. Anche il chiostro viene rinnovato e probabilmente si chiede l’intervento di Biagio Rossetti, già impegnato nel monastero di San Giorgio di Ferrara.
Poi viene ornato, secondo il Bartoli (1793), con storie della Genesi dipinte ad affresco da Dono Doni di Assisi.
La chiesa attuale fu costruita a partire dal 1562. La posa della prima pietra avvenne il 21 marzo di quell’anno. Il lavoro di progettazione fu affidato, secondo l’abate Alessandro Rossi, a Bartolomeo Bonarizzo, ma dai documenti emergono anche i nomi dei maestri muratori ferraresi Bartolomeo Facino e Alberto Schiatti, attivi nell’ambito olivetano di San Giorgio di Ferrara. Quest’ultimo ha progettato la costruzione del campanile, completata nel 1592. La dipendenza dal monastero di San Giorgio di Ferrara si conclude verso il 1580 con l’intervento della Repubblica Veneta che chiede l’inserimento del monastero nella provincia olivetana del Veneto. Fino alla metà del secolo XVII la chiesa è priva, all’interno, di decorazioni.
Le prime tele che arrivano, documentate nell’inventario del primo aprile 1660, sono le due storie della vita di San Benedetto collocate sulle pareti laterali della tribuna e tre grandi quadri che ornano la controfacciata. Poi l’abate Luca Calzorelli avvia la decorazione delle cappelle con pale d’altare e stucchi, rivolgendosi ad artisti che avevano lavorato per i monasteri olivetani di San Giorgio di Ferrara, San Michele in Bosco di Bologna e Santa Maria in Organo di Verona. Negli anni 1675-1676 viene costruito un secondo chiostro.
Il Monastero di San Bartolomeo, ristrutturato e riorganizzato con grandi capacità dai monaci olivetani, diventa in poco tempo, oltre un centro di fervida vita religiosa, contendente il Priorato della Madonna dei Sabbioni di Rovigo e la Badia di San Pietro in Maone presso Crespino, anche un importante, ricco centro agricolo e commerciale, con possedimenti, dovuti a lasciti, nei dintorni della Bresega, a Baltun di Sant’Apollinare, a Selva di Crespino e ad Agna nel padovano (in tutto oltre mille campi).
Con l’arrivo dei Francesi, nel 1797, il monastero viene soppresso.
Dopo due anni i monaci ritornano, ma con decreto del 25 aprile 1810 sono definitivamente allontanati dai Francesi. Allora la chiesa diventa sussidiaria della parrocchia di San Francesco. Nel 1956 fu eretta a chiesa parrocchiale.
Il monastero fu venduto dal demanio francese a Giacomo Giro. Questi il 30 aprile 1844 lo donò al Comune di Rovigo perché diventasse Casa di Ricovero. Nel 1970 la Casa di Ricovero fu trasferita in una nuova costruzione e per il complesso monumentale di San Bartolomeo inizia l’attesa per il recupero. I lavori di restauro vengono finalmente avviati nel 1990, senza però un’idea sulla destinazione d’uso. Purtroppo, assurdamente, viene lasciata fuori la chiesa, essendo di proprietà ecclesiastica. Questa è stata sistemata nelle strutture per consentirne l’uso, ma la decorazione interna, costituita da un ciclo molto interessante di dipinti, sculture e stucchi di gusto barocco, unico nella città di Rovigo, non è mai stata oggetto di restauri, ad eccezione di alcune pale d’altare, e continua a versare in deplorevoli condizioni di conservazione.

Dal catasto del 1709, presso Biblioteca dell’Accademia dei Concordi, Conventi soppressi, S. Bartolomeo, 4,3.


La facciata

La facciata della chiesa è in muratura intonacata. Si sviluppa armoniosamente su due ordini sovrapposti, secondo uno schema rinascimentale che ha riferimenti in ambienti ferrarese. Su uno zoccolo basso si imposta l’ordine inferiore scandito da sei lesene sulle quali poggia un architrave sormontato da una vistosa cornice aggettante.
Nei due spazi esterni tra le lesene si aprono due nicchie poco profonde, nelle quali sono collocate le statue di S.Bartolomeo (a destra) e di S.Benedetto (a sinistra), che risultano piuttosto appiattite sulla leggera concavità. Sono di una pietra tenera che il tempo ha corroso abbondantemente provocando vistose lacune nel modellato.
Tuttavia si può cogliere una volontà di adeguamento a valore formale cinquecenteschi convenzionali che delimitano la ricerca dell’autore in un ambito di artigianato ferrarese in grado di soddisfare committenze non eccessivamente esigenti. Notevole è la diversità di modellato, tanto che se venissero considerate separatamente, difficilmente si potrebbe pensare a pendant. Mentre il San Bartolomeo è assorto, in posizione statica, bloccata dalle pieghe dritte e rigide di un panneggio che scende dalla cocolla, il San Benedetto accenna ad una mossa sottolineata da un panneggio ondulata, alza lo sguardo e allarga il braccio sinistro, e spezza il ritmo del volume, tenendo con la mano un grosso libro appoggiato di taglio sull’anca
Nei due spazi interni tra le lesene si aprono finestre rettangolari, un tempo ornate di timpano che risulta segnato sull’intonaco.
Nello spazio mediano si apre il portale in marmo bianco, semplice ed elegante, con timpano innalzato su due mensole.
L’ordine superiore della facciata si stringe ed è collegate con quello inferiore da due ampie volute laterali. Presenta quattro lesene corrispondenti a quelle sottostanti, ma più piccole, che determinano uno spazio centrale con occhio e due spazi laterali con finestre rettangolari corrispondenti a quelle dell’ordine inferiore. Sulle lesene è appoggiato un architrave con la scritta a lettere capitali D.O.M. AC DIVO BARTHOLOMAEO AP. DICATUM.
Il fastigio è costituito da un timpano sostenuto da due alte mensole, tra le quali si apre un piccolo occhio, raccordato da volute laterali con l’ordine sottostante e chiuso alle estremità da pinnacoli. Al vertice è collocata l’insegna di Monte Oliveto.

Statua di San Bartolomeo sulla facciata esterna

L’interno

Veduta interno. Ph a cura studenti IIS Edmondo De Amicis

All’interno la chiesa presenta un’unica navata con otto cappelle (quattro per lato), un presbiterio leggermente più stretto, rialzato di un gradino, in origine esteso fino al cambiamento di pavimentazione e separato da un elegante balaustra in marmo di Carrara, e un’ abside curva. La navata è chiusa in alto da una volta a botte con nervature corrispondenti alle lesene, di cui è accentuata quella di apertura del presbiterio che ha la funzione di arco trionfale. La volta diventa catino nella parte absidale.
Tra le cappelle salgono larghe lesene da alte zoccolature, sulle quali scorre marmo giallo, a triglifi e metope con raffigurazione di mitrie, piatti, lampade, libri, strumenti musicali, anfore, agnelli, fatto eseguire nel 1734 da uno sconosciuto pittore e pagato 12 lire il 25 luglio di quell’anno. Il fregio scompare lungo il presbiterio e l’abside, probabilmente coperto da pittura recente.
Sopra la fascia decorata sporge un cornicione sul quale si imposta la volta.
Nella prima curvatura della volta si aprono quattro lunette, sul lato sinistro, con finestre rotonde, in corrispondenza delle sottostanti cappelle e sul lato destro confinante con il monastero, altrettante lunette con finte finestre dipinte. Quattro finestroni a strombo si aprono sulla parete absidale.
Gli estradossi delle otto cappelle sono ornati da tele, attualmente in pessime condizioni, che lasciano intravedere appena putti, ghirlande e frutta, tutte con lo stesso schema compositivo, dipinte probabilmente nel secolo XVIII.
Sopra l’altare maggiore è sospesa un’elegante corona aerea in legno intagliato e dorato, di forma ovale e ondulata secondo il gusto settecentesco, sostenuta da quattro bracci pure ondulati, con un cherubino radioso sulla parte centrale e ornamento e lambrecchini che racchiudono un “cielo” raffigurante un coro d’angioletti.
Due confessionali in legno di noce, costruiti nel 1740, sono collocati ai lati della porta e formano con la bussola, pure in noce e della stessa epoca, un armonioso sistema decorativo che viene esaltato dagli intagli fitomorfi dei rispettivi fastigi, nei quali spicca al centro lo stemma di Monte Oliveto.
Il pavimento è in lastre di marmo bianco, nero e rosso di Verona di forma quadrata; è datato 1715 nell’angolo a destra entrando.
Un’apertura nel pavimento è segnata nella parte centrale appena fuori dalla tribuna da una riquadratura con cornice in tarsia marmorea fitomorfa e lastra con due rami di ulivo intarsiati, e quattro borchie.
Un’altra lastra con eleganti tarsie marmoree fitomorfe e due borchie si trova tra la prima e la seconda cappella a sinistra.
Il presbiterio è stato ridotto spostando il gradino all’interno per allungare la navata.

Cappella della Passione di Gesù Cristo

Francesco Ferrari, La deposizione di Cristo (1686?). Copia del Correggio per la cappella Del Bono nella chiesa di San Giovanni Evangelista in Parma

La prima cappella a destra è dedicata alla Passione di Gesù Cristo. Una ricca decorazione a stucco con motivi vegetali sale lungo i pilastri fino al sott’arco incorniciando tre piccoli affreschi e continua sulle pareti e sulla volta arricchita anche con putti.
L’altare è uguale a quello della cappella di fronte dedicata San Aurelio. La mensa è ornata da marmo rosso di Verona e nero in forme geometriche.
L’alzato si sviluppa su due semicolonne corinzie in marmo rosso di Verona addossate alla parete. In mezzo, sopra una griglia in legno intagliata e dorato a motivi vegetali, che ornano un sarcofago con reliquie di santi, si trova la tela raffigurante La deposizione di Cristo che, come ha indicato correttamente F. Bartoli (1793), è una copia del dipinto eseguita dal Correggio per la cappella Del Bono della Chiesa di San Giovanni Evangelista di Parma. Il Bartoli riferisce anche che è opera di Antonio Triva e come tale è stata finora descritta.
Da una attenta osservazione emerge, nonostante le cattive condizioni di conservazione, che la pennellata e l’incerto disegno non possono rientrare nei modi dell’interessante pittore di Reggio Emilia, allievo del Guercino. È una pittura che ha riscontri precisi nella tela dell’altare di fronte, raffigurante Il Martirio di Sant’Aurelio, che come è stato dimostrato dallo scrivente, è opera di Francesco Ferrari, mentre il Bartoli riteneva che anche questa fosse del Triva.
Se si considera poi che i piccoli affreschi molto rovinati fra gli stucchi sono stati dipinti dal Ferrari nel 1686, come pure quelli della cappella di fronte e quelli della seconda cappella a sinistra, dedicata al Beato Bernardo Tolomei, si intuisce come al modesto Ferrari spetti anche la copia del Correggio, che molto difficilmente sarebbe stato possibile ottenere dal qualificato Antonio Triva.
Francesco Ferrari è un pittore nato a Fratta Polesine nel 1634, divenuto ferrarese di adozione. È conosciuto come ornatista-quadraturista attivo in teatri, palazzi, ville e chiese con un repertorio figurativo accademico fastosamente barocco. Ampio e spettacolare è il cielo decorativo eseguito nella chiesa del monastero di San Giorgio di Ferrara, strettamente legato al monastero di San Bartolomeo di Rovigo.
I suoi piccoli affreschi tra gli stucchi della volta raffigurano La crocifissione (al centro), Il trasporto della croce ( quasi scomparso, a destra), L’incoronazione di spine (a sinistra), due Virtù lungo i pilastri un angioletto nel sott’arco. Le pessime condizioni ne impediscono la lettura.
La cappella è ornata lateralmente con due tele di Francesco Mosca, l’autore dei tre dipinti della controfacciata. Raffigurano L’orazione nell’orto (a destra) e La flagellazione (sinistra). Sono in pessimo stato di conservazione e quindi non è possibile la valutazione degli elementi tecnici e stilistici.

Particolari della cappella della deposizione

Cappella di San Benedetto

Giovanni Murari, Il transito di San Benedetto, 1686

La seconda cappella a destra è dedicata a San Benedetto. Stucchi leggeri con volute fitomorfe, fiori e motivi geometrici su fondo verde, ornano il sottarco e le pareti.
L’altare ha la mensa decorata con marmi policromi screziati in forme geometriche, come quella dell’altare della cappella di fronte, dedicata al Beato Bernardo Tolomei. L’abbellimento è stato realizzato nel 1707 dal tagliapietra Giovanni Fasolato. Impostano l’alzato due colonne corinzie in stucco dipinte a finto marmo verde sulle quali si avvitano tralci di vite rampicante sempre in stucco, ricchi di grappoli e foglie, che inquadrano la pala raffigurante Il transito di San Benedetto, opera di grande importanza in una chiesa olivetana. Assegnato da Bartoli (1793) a Luca Giordano e come tale a lungo ammirato e quindi ben conservato, il dipinto in realtà è opera di Giovanni Murari. Il 30 marzo 1686 questo pittore veronese, che allora aveva appena diciassette anni, se dobbiamo credere al biografo Bartolomeo Dal Pozzo, rilasciava all’abate Luca Calzarelli la ricevuta di lire bolognesi 107,12 per il pagamento del dipinto. Ricordato come artista precoce, il Murari dà qui una prova di abilità nell’impiegare modelli pietistici bolognesi, conosciuti alla scuola di Domenico Maria Canuti, con una sensibilità veneta che ricerca vibrazioni emotive pur rimanendo nell’iconografia convenzionale. La committenza è avvenuta nell’ambito dei rapporti col monastero di Santa Maria in Organo di Verona, presso il quale il pittore lavorava.
Sulle pareti laterali della cappella emergono da nicchie ornate con cartonches, due sculture in stucco raffiguranti San Mauro (sinistra) e San Placido (destra). I due santi, di nobili famiglie romane, furono tra i primi discepoli di San Benedetto. Sono opere enfatiche eseguite da un plasticatore che soddisfa abilmente le esigenze devozionali.
Nel sottarco gli stucchi incorniciano tre piccoli affreschi con paesaggi e nella volta tre storie di San Benedetto.

Cappella dell’Immacolata Concezione, già di Santa Caterina d’Alessandria

Immacolata Concezione, copia da Sebastiano Ricci presso chiesa di San Vidal in Venezia (1749?)

La terza cappella a destra è dedicata all’Immacolata Concezione di Maria. In origine era dedicata a Santa Caterina d’Alessandria e sull’altare si trovava una pala raffigurante Il martirio di Santa Caterina. Verso il 1747 questo dipinto, assegnato da Bartoli (1793) a Domenico Brusasorci, veniva trasferito sul primo altare a destra della chiesa della Madonna dei Sabbioni, appartenente al monastero di San Bartolomeo, per fare posto alla presente tela raffigurante L’Immacolata Concezione. Bartoli (1793) la ritiene di Gaetano Zampini. Nei registri delle spese del monastero è descritta a partire dal 1747. Nel 1749 viene citata dall’abate Alessandro Rossi come l’Immacolata Concezione di Maria “dipinta in Venezia dalla virtù del Rizzi” (i documenti sono stati pubblicati dallo scrivente). Il nome fa ovviamente pensare a Sebastiano Ricci, ma siamo avanti con gli anni; il pittore era già scomparso nel 1734.
Con ogni probabilità la notizia dell’abate Rossi si riferisce all’Immacolata Concezione della chiesa veneziana di San Vidal, dipinta secondo i canoni tradizionali da Sebastiano Ricci, della quale era stata commissionata, da parte dei monaci di San Bartolomeo, la copia a qualche allievo o seguace del Ricci, che sarebbe interessante conoscere.
Basta comunque fare il confronto con la pala di San Vidal per vedere la differenza di qualità, rilevando chiaramente che non arriva alla fragranza della pennellata del Ricci, e rendersi conto che si tratta di una copia. Si conferma così l’interesse dei monaci di San Bartolomeo per le copie di maestri famosi.
L’altare è di impostazione classica: dietro la mensa in marmo giallo con inserti di marmo verde e nero, salgono due semicolonne ioniche in marmo rosa di Valdagno addossate alle pareti, che sostengono un timpano triangolare sormontato da due angeli grandi in stucco ai lati e da uno piccolo al centro.
Sulle pareti laterali si trovano due tele che ricordano la prima dedicazione della cappella a Santa Caterina d’Alessandria. Quella a destra raffigura la Madonna col Bambino e Santa Caterina, quella a sinistra San Luca e Santa Caterina. Sono opere di Francesco Mosca che non si possono valutare a causa del cattivo stato di conservazione.
Sui pilastri, tra girali di stucchi con fiori, che si estendono anche nel sottarco e nella volta, è raffigurato in stucco lo stemma di Monte Oliveto. Tre piccoli affreschi rovinati con paesaggi si aprono tra gli stucchi del sottarco e altri tre con scene illeggibili si aprono nella volta.

Cappella di Santa Francesca Romana

Camillo Ricci, Santa Francesca Romana, inizi ‘600

La quarta cappella a destra è dedicata a Santa Francesca Romana. L’altare ha la mensa ornata da marmi policromi. È un lavoro eseguito nel 1707 dal tagliapietre Francesco Fasolato che decorò anche quella uguale all’altare di fronte.
Tra due belle colonne in marmo africano violaceo, si trova la pala con Santa Francesca Romana raffigurata secondo l’iconografia tradizionale. Indossa l’abito nero con il velo bianco della congregazione delle oblate benedettine di Monte Oliveto, da lei fondata e, alla presenza di un angelo, mostra un libro aperto dove si legge il seguente brano dell’’Ufficio della Vergine, tratto da i salmi (73, 23-24): “TENUISTI MANUM DEXTRAM MEAM ET IN VOLUNTATE TUA DEDUXISTI ME, ET CUM GLORIA SUSCEPISTI ME” (“mi hai preso per la mano destra, mi hai guidato con il tuo consiglio e mi hai accolto nella tu gloria”).
Una cesta piena di pani, posta per terra, allude alle opere di misericordia da lei compiute. L’immagine della santa è di solito canto a quella di San Carlo Borromeo, altro grande santo della carità, che qui troviamo puntualmente nella pala della cappella di fronte. Respinta giustamente da Sgarbi l’attribuzione di Bartoli a Francesco Mosca, va accolto l’orientamento verso Camillo Ricci (Ferrara, 1580 c.-1626) più che verso lo Scarsellino. I colori foschi e i modi pietistici ravvivati da qualche spunto veneto, mediato dallo Scarsellino, che qui si osservano, sono quelli di Camillo Ricci. Puntuali riscontri si hanno nella tela raffigurante Santa Francesca Romana che riceve il Bambino Gesù dalle mani della Vergine, dipinta da Ricci per la chiesa dedicata alla santa a Ferrara. Poiché i monaci di San Bartolomeo solitamente commissionavano copie di quadri famosi, o derivazioni da dipinti esistenti in monasteri della stessa regola, questa tela dovrebbe essere stata eseguita dopo quella di Ferrara.
La cappella è ornata lungo i pilastri e nel sottarco con motivi a candelabre su fondo rosso, interrotti da tre piccoli affreschi, sbiaditi e ingialliti, che ritornano anche in altri tre ovali tra gli stucchi della volta. Tre angioletti in stucco anneriti dal fumo delle candele stanno ritti sull’architrave dentellato dell’altare e altri due sono collocati ai lati sopra festoni con fiori e frutta, sulla parete di fondo che nel 1704 era stata dipinta a finto stucco da Antonio Ferrari, figlio di Francesco. Sulle pareti laterali si aprono due nicchie senza statue.

Altare maggiore

Francesco Fasolato e Antonio Corberelli, altare maggiore, 1691

L’altare maggiore fu eretto nel 1691 dal padovano Francesco Fasolato e decorato con eleganti tarsie marmoree policrome da Antonio Corberelli, appartenente ad una famiglia fiorentina di prestigiosi intarsiatori stabilitasi a Padova, come risulta da un registro delle spese del monastero: “Adì 8 dicembre 1691. Fu stabilito l’Altar Maggiore in questa nostra chiesa di marmo fino fatto fare dal R.mo Padre Abbate, lavorato dal Sig. Francesco Fasolato di Padova tagliapietra e dal Sig. Antonio Corberelli di Padova dimettidor; e fu speso in tutto lire cinquemila cento settantasette, soldi undici”. La mensa è stata staccata in seguito alla riforma della liturgia.

Giusto Le Court, Angelo portacero, 1691. Scuola del Bernini

I due angeli portacero, in marmo di Carrara, ai lati dell’altare maggiore, sono di Giusto Le Court. Anche se per il momento non è documentata la committenza, non possono esserci dubbi sull’assegnazione al grande scultore fiammingo, allievo di Bernini, innovatore nell’ambito veneto con l’introduzione di un modello fluido e armonioso che crea dolci effetti chiaroscurali.
La prima notizia delle due sculture si trova nell’inventario del monastero del 1699. È il periodo in cui lo scultore opera a Padova nella cappella di San Sebastiano della Basilica di Santa Giustina, dove lascia due angeli portacero molto simili a questi per qualità di modellato e atteggiamento; inoltre opera per la tomba Cornaro nella Basilica di Sant’Antonio. Il Le Court allora risiedeva a Padova e di Padova erano Francesco Fasolato, costruttore dell’altare maggiore e Antonio Corberelli il decoratore con tarsie marmoree policrome. Considerando la sua attività presso i monaci di Santa Giustina, si comprende come sia giunto nella Chiesa di San Bartolomeo di Rovigo e certamente insieme a lui c’erano Francesco Fasolato e Antonio Corberelli con i quali doveva avere dimestichezza e affiatamento. I Due Angeli risultano veramente superbi dopo l’accurato restauro del 1988 e richiamano la grande bellezza dell’altare della Basilica Della Salute di Venezia, capolavoro assoluto di Giusto Le Court.

LE DUE GRANDI TELE DEL PRESBITERIO
Le due grandi tele che ornano la tribuna raffigurano San Benedetto che riceve doni dai contadini(a destra) e San Benedetto che scaccia il demonio (a sinistra). Sono copie tratte dai dipinti rispettivamente di Guido Reni e di Ludovico Carracci, eseguiti per il portico del chiostro del monastero di San Michele in Bosco di Bologna.
I monaci di San Bartolomeo avevano rapporti con questo monastero bolognese, ma devono essere arrivati alla committenza dei due dipinti seguendo l’esempio dei confratelli del monastero di San Giorgio di Ferrara, i quali avevano fatto eseguire dal pittore ferrarese Francesco Naselli le copie dei due famosi dipinti bolognesi del Reni e del Carracci per le pareti della tribuna della loro chiesa. Entrambi i monasteri desideravano in questo modo onorare, secondo la tradizione, il grande fondatore della regola benedettina, senza pretese di originalità artistica, secondo lo spirito devozionale. Con ogni probabilità è stato interpellato il Naselli anche per queste coppie che, rispetto a quelle ferraresi, sono di dimensioni inferiori e quindi mancano alcune figure ai lati. Francesco Naselli era conosciuto e apprezzato a Ferrara, nei primi decenni del sec. XVIII, come un buon copista chiamava esercitarsi soprattutto sul Guercino, sui Carracci e sul Reni, corrispondendo perfettamente alle richieste devozionali del tempo. A chi, se non al lui, potevano rivolgersi i monaci committenti rodigini, tanto legati al monastero di San Giorgio di Ferrara? L’attribuzione avviene così per via del deduttiva, sulla scorta di buone ragioni, non essendo possibile l’analisi pittorica già difficile essendo copie per il pessimo stato di conservazione in cui versano. Ad ogni modo il Naselli imbevuto di carraccismo, dalla “pennellata liquida, filante, con cui riveste certi suoi ectoplasmi di figure”, si può ancora intravvedere su queste tele offuscate e afflosciate, che rievocano l’inizio dell’impresa decorativa nella chiesa di San Bartolomeo. Considerando che l’artista scompare nel 1630 sono le prime due pitture che vengono commissionate.

San Benedetto che riceve doni dai contadini San Benedetto che scaccia il demonio

GLI STUCCHI E LE TELE DEL PRESBITERIO
Completano l’ornamento delle pareti della tribuna, nelle parti inferiori, due dipinti raffiguranti Il miracolo di Bolsena (a destra) e Il ritrovamento e l’adorazione dell’ostia (a sinistra), eseguita dal pittore veneziano Francesco Grandi su commissione dell’abate Luca Calzarelli.
Dai registri del monastero risulta che in data 26 novembre 1961 furono consegnate lire 223,4 “al Sig. Francesco Grandi da Venetia Pittor per due quadri di due Miracoili del SS.mo Sacramento fatti e posti in mezzo alli stucchi nuovi fatti fare allilatterali della tribuna”. Il Bartoli (1793) li aveva descritti come opere della scuola di Andrea Celesti e a lungo è durata questa attribuzione.
Di Francesco Grandi non si sa nulla. Da quello che si può vedere tenendo conto dello stato di conservazione precario, il pittore tenta la narrazione senza la certezza di pennellata necessaria per definire gli atteggiamenti delle figure che rimangono piuttosto rigide e poco espressive.
I due dipinti sono incorniciati da vistosi rilievi in stucco raffiguranti entrambi tre angioletti reggicortina e alcuni volti di Cherubini. Sbagliava il Bartoli (1793) attribuendoli a Giuseppe Mazza. Sono in realtà i lavori di Pietro Roncaiolli, commissionati insieme agli stucchi della cappella del Santissimo Sacramento, come risulta da un documento del monastero datato dicembre 1691: “in detto mese furono stabiliti gli stucchi fatti fare dal R.mo Padre Abbate in questa nostra Chiesa, cioè alli laterali della tribuna dell’Altare Maggiore e tutto l’adornamento all’Altare e Cappella del Santissimo, fatti dal Sig. Pietro Roncaiolli di Venetia e Scultor, e in tutto fu speso L. 840,10”.

Il ritrovamento e l’adorazione dell’ostia

Il miracolo di Bolsena
IL MARTIRIO DI SAN BARTOLOMEO DI BENEDETTO GENNARI
Al centro della parete absidale spicca perle dimensioni imponenti la tela raffigurante Il martirio di San Bartolomeo di Benedetto Gennari. Il 21 luglio 1696 l’abate del monastero di San Michele in Bosco di Bologna, Don Bernardo Roffeni, stipula con Benedetto Gennari, nipote e scolaro del Guercino, allora famoso essendo stato “Primario Pittore di S.M. Britannica”, l’accordo per conto dell’Abbate di San Bartolomeo, don Aurelio Cezza, di dipingere Il martirio di San Bartolomeo “in una tela d’altezza piedi dici e di larghezza piedi sette di misura bolognese, e disporci quel maggior numero di figure et altri accompagnamenti, che ricercherà l’espressione del progetto con forme al giudizio et arbitrio di detto Sig. Benedetto, quale promettedi darlo terminato in tempo di poter essere collocato nella chiesa di San Bartolomeo per il giorno 24 d’Agosto dell’Anno venturo 1697”(giorno della festa di San Bartolomeo).Il compenso viene fissato in “duecentodoppie da 30 Paoli l’una”.
Il pittore consegna l’opera il 10 luglio 1697 e riceve in omaggio per la premura una fruttiera di argento acquistata dai monaci a Venezia dall’argentiere Ventura Tagliaferri per 210 lire. La tela viene trasportata a Rovigo a cura dei monaci, che riescono ad evitare il pagamento del dazio per l’ ”Interposizione dell’III.mo Sig. Conte Rubloni Ferrarese”. Il 14 luglio l’abate Cezza, durante una solenne cerimonia, la benedicee due giorni dopo provvede all’installazione dove tutt’ora si trova.
Tenuta sempre in buina considerazione, tanto che il nome dell’autore non è mai stato dimenticato, la tela, documentata anche dallo stesso Benedetto Gennari nel suo elenco di Bologna (n.67), è rimasta a lungo in condizione di difficile lettura a causa del cattivo stato di conservazione e purtroppo vi rimane ancora non avendo consentito un recente restauro (1990) il recupero dei valori pittorici.
Benedetto Gennari imposta la scena alla grande con San Bartolomeo che si contorce, con il viso stravolto verso il cielo, sotto l’azione dei carnefici che gli stanno intorno con i coltelli in atteggiamenti di danza selvaggia, mente una figura femminile appare dal buio sul fondo a sinistra e altre due in primo piano guardano la scena e invitano l’osservatore a guardarla a sua volta.
Sono tutti questi suggerimenti teatrali che appartengono alle temperie della controriforma, spettacolari, di grande efficacia sull’induzione meditativa per la forzatura dei ritmi. Per quanto riguarda il colore il giudizio rimane sospeso non essendone stato possibile il recupero.

LE DUE TELE LATERALI DELL’ABSIDE
Sulla parete dell’abside, a destra, si trova il dipinto su tela raffigurante La Madonna col Bambino e i Santi Rocco, Sebastiano e Bellino. È l’unica opera conosciuta di Giovanni Bambini, firmata e datata 1724 sulla mitria di San Bellino: “IOAN. BAMB. F. 1724”. Il Bartoli (1793) la ricorda sull’altare maggiore della chiesa del Lazzaretto, la pia istituzione che sorgeva poco lontano dal monastero di San Bartolomeo. Si spiega così il soggetto: una pala votiva dedicata alla Madonna, alla quale si rivolgono i due soliti santi protettori contro la peste, San Sebastiano e San Rocco, unitamente, in questo caso, a San Bellino patrono della diocesi, per implorare la protezione contro le pestilenze.
Di Giovanni Bambini si sa soltanto, grazie ad A. M. Zanetti che dipinse quattro storie della vita di San Romualdo per la cappella dedicata a questo santo nella chiesa di San Michele di Murano e che lavorò con il padre nella chiesa del Carmine. Figlio e allievo del noto pittore Nicolò, in quest’unica opera conosciuta, da quello che si può vedere, dopo il restauro, non sembra ancora in grado di liberarsi da impacci compositivi per entrare nelle temperie della rinnovata stagione veneziana dei primi decenni del sec. XVIII, guardando verso Sebastiano Ricci come certamente deve avergli insegnati suo padre.
Sulla parete dell’abside, a sinistra, si trova la tela raffigurante La Messa di San Gregorio Magno.
È un’opera convenzionale di un modesto pittore conosciuto, probabilmente di scuola emiliana del sec. XVIII. Non se ne conosce la provenienza.
Fu collocata per un certo tempo sull’altare della vecchia sacrestia, divenuta una cappella interna, al posto di una tela raffigurante L’adorazione dei Magi attribuita a scuola emiliana, ora conservata nella Pinacoteca dell’Accademia dei Concordi. La Messa di San Gregorio Magno è un tema devozionale diffuso dopo la controriforma, che qui non è sufficientemente espresso. Deriva da una leggenda secondo la quale San Gregorio Magno, istitutore della liturgia, durante la messa, accorgendosi che era presente un uomo senza fede, pregò Dio di inviare segno e sull’altare apparve l’immagine di Cristo Crocifisso con gli strumenti della Passione.

IL CORO
Il coro, in legno di noce intagliato, è lavoro artigianale del sec. XVIII. È formato da due ordini di seggi definiti da volute laterali e da un cordolo curvo come schienale sormontato da ornamenti a ricciolo alle estremità. Le sedute sono ribaltabili. L’ordine superiore è formato da ventitré seggi con dossali scanditi da colonne scanalate ioniche.
Il seggio centrale è sormontato da un timpano spezzato. Nelle specchiature centinate dei dossali sono applicati gli stemmi, con i nomi e le date, dei vescovi della diocesi di Adria – Rovigo dal 1318 fino ad oggi.
Quella del seggio centrale accoglie lo stemma con piccolo ritratto del cardinale Pietro Silvestri. I seggi dell’ordine inferiore, uguali agli altri, sono venti ed hanno inginocchiatoi a banco, staccati. Lo stato di conservazione è precario.
Le due cantorie in legno sporgenti dalle pareti tra la tribuna e l’abside sono state costruite da Sante Baseggio nel 1778 e decorate l’anno successivo a finto marmo e con composizioni di strumenti musicali in rilievo delle specchiature del parapetto ondulato, tipicamente settecentesco. In quella di sinistra si trova un pregevole organo di Gaetano Callido, installato nel 1778, perfettamente funzionante.

CAPPELLA DI SAN CARLO BORROMEO
(Quarta a sinistra)
La quarta cappella a sinistra è dedicata a San Carlo Borromeo. L’altare ha la mensa ornata da marmi policromi con gli stessi motivi geometrici di quello dell’altare di fronte dedicato a Santa Francesca Romana, la santa della carità raffigurata solitamente accanto a San Carlo Borromeo.
Il lavoro è stato eseguito nel 1707 dal tagliapietra Francesco Fasolato. L’alzato dell’altare è costituito da due semicolonne corinzie tortili, addossate alla parete, in stucco dipinto a finto marmo con rampicante fiorito in stucco dorato. Manca l’architrave. Due angeli in atteggiamento specolare sono seduti alla sommità. La pala raffigurante L’apparizione della Madonna col Bambino a San Carlo Borromeo, è opera di Tommaso Sciacca. Fu collocata sull’altare il 24 maggio 1794 in sostituzione di un’altra, raffigurante sempre San Carlo Borromeo, del pittore rodigino Alfonso Aldiverti, di cui non si conoscono opere. Lo Sciacca è un pittore di origine siciliana (Mazzara del Vallo, 1734) che finisce i suoi giorni a Lendinara (2 maggio 1795).
Si forma nell’ambiente del classicismo romano tardo-settecentesco (A. Masucci, A. Cavallucci). Apprezzato dall’abate generale degli olivetani, il lendinarese Antonio Maria Griffi, arriva in Polesine all’inizio del 1794. Dipinge per la chiesa di Villanova del Ghebbo, per il duomo di Rovigo e naturalmente per gli olivetani ci San Bartolomeo e della Madonna del Pilastrello di Lendinara, dove trova un mecenate nel conte Giovanni Battista Conti. Anche in quest’opera in non buone condizioni sono facilmente riconoscibili i colori tenui e il modellato morbido dello Sciacca e così pure sono visibili i suoi limiti compositivi.
I pilastri della cappella sono ornati da stucchi con motivo a candelabra che sale fino al sottarco dove appaiono tre piccoli affreschi con paesaggi illeggibili (quello a destra è scomparso). Sulle pareti laterali si aprono due nicchie con le statue in stucco, di fattura artigianale, raffiguranti San Girolamo (a destra) e Sant’Agostino (a sinistra), sopra le quali si trovano due ovali ad affresco con storie relative probabilmente ai due padri della chiesa. Gli altri due, Sant’Ambrogio e San Gregorio, sono raffigurati, sempre in stucco e dalla stessa mano, nelle due nicchie ai lati dell’altare. La volta della cappella è ornata da tre affreschi ovali con putti e fiori (quello centrale è illeggibile).

CAPPELLA DEL SANTISSIMO SACRAMENTO
(Terza a sinistra)
La terza cappella a sinistra è dedicata al Santissimo Sacramento. Sull’altare, con la mensa ornata da marmi policromi in forme geometriche, tra due colonne corinzie in marmo rosso di Verona che sostengono un timpano triangolare dentellato, si trova al posto della pala un tabernacolo di marmo sorretto da due angeli in stucco, appoggiato su un fondo dorato con angeli in stucco a bassorilievo che circondano la colomba dello Spirito Santo.
Il tabernacolo ha forma di tempietto ottagonale con colonnine corinzie di marmo nero, esterne, in corrispondenza degli angoli, sormontate da angioletti. Presenta un alto basamento con murature e decorazioni lapidee, che termina in basso con una testa di cherubini e alla sommità è chiuso da una cupoletta rialzata ornata con marmi policromi. Sopra il timpano triangolare sono appoggiate due grandi statue in stucco raffiguranti Elia (a destra) e Mosè (a sinistra).
Sono state eseguite, insieme agli angeli che sorreggono il tabernacolo e agli stucchi della volta, da Pietro Roncaiolli, su commissione dell’abate con un contratto del dicembre 1691, che prevedeva anche gli stucchi con gli angeli reggi cortina ai lati della tribuna. Sono opere di concezione barocca eseguite con buone capacità artigianali.
Sulle pareti laterali si trovano due tele raffiguranti Sant’Agata e Santa Lucia (a destra) e San Benedetto e San Bartolomeo ( a sinistra). Sono copie delle tavole, attribuite a Girolamo da Carpi,trasferite nel 1837 nella Pinacoteca dell’Accademia dei Concordi perché qui continuavano ad essere danneggiate dall’umidità.
I pilastri e il sottarco sono ornati con eleganti, vistosi motivi vegetali in stucco simili nel disegno e uguali per modellati a quelli della prima e seconda cappella a sinistra e della prima a destra.

CAPPELLA EL BEATO BERNARDO TOLOMEI
(Seconda a sinistra)
La seconda cappella a sinistra è dedicata al Beato Bernardo Tolomei. L’altare ha la mensa decorata con marmi policromi in forme geometriche, uguale a quella della cappella di fronte dedicata a San Benedetto. L’ornamento lapideo è stato eseguito dal tagliapietra Giovanni Fasolato nel 1707.
L’alzato si sviluppa su due colonne in stucco per metà tortili e con racemi rampicanti, e per metà lisce, dipinte a finto marmo. Alla sommità due angeli in stucco siedono sugli spezzoni curvi del timpano; un altro piccolo sta in piedi al centro.
La pala raffigura Il Beato Bernardo Tolomei tormentato di demoni e soccorso dalla Vergine. Ritenuta da Bartoli (1793) di Luca Giordano, e come tale bene conservata e riproposta successivamente, è stata restituita dallo scrivente a Giovanni Maria Viani in base al ritrovamento del contratto stipulato dall’abate Luca Calzarelli con il pittore in data 10 luglio 1685, che prevedeva il pagamento in “lire trecento in quattrini all’atto della consegna” del quadro, fissata entro il carnevale del 1686.
Il Viani era un pittore bolognese dal carattere mite e dall’aspetto gramo, formatosi alla scuola di Flaminio Torri e studiando le opere di Guido Reni. Aveva lavorato per il monastero di San Michele in Bosco di Bologna e questo spiega l’arrivo de suo dipinto vicino tipologicamente al Beato bernardo Tolomei eseguito dal Guercino nel 1661 per il monastero bolognese. Inoltre la tela presenta analogie con il San Benedetto di Domenica Maria Canuti di San Giorgio Di Ferrara.
Si riscontrano nell’opera quella notevole abilità nel disegno e quel buon colorito che L. Crespi aveva sottolineato delineando la vita del pittore.
Sulle pareti laterali della cappella si trovano, in nicchie poco profonde, le statue in stucco di San Patrizio Patrizi abate (a destra) e del Beato Ambrogio Piccolomini abate (a sinistra),i due amici del Beato Berardo Tolomei, con i quali aveva fondato a Monte Oliveto (Siena) la Famiglia olivetana nell’ambito del grande Ordine Benedettino.
Sono opere artigianali caratterizzate da lunghe ondulazioni dl panneggio che enfatizzano i gesti. Sopra le nicchie ci sono due piccoli affreschi rovinati tra putti in stucco.
I pilastri sono ornati da eleganti motivi vegetali in stucco, che arrivano fino al sottarco, simili a quelli che ornano la prima e la terza cappella a sinistra e la prima a destra, tra i quali emergono quattro piccoli affreschi con storie della vita del Beato Bernardo Tolomei ormai illeggibili. Altri cinque piccoli affreschi illeggibili si trovano sulla volta della cappella tra ghirlande e putti i stucco,. La decorazione ad affrecso è opera di Francesco Ferrari, datata 1686 sulla scenetta rovinata del pilastro a sinistra.

CAPPELLA DI SANT’AURELIO
(Prima a sinistra)
La prima cappella a sinistra è dedicata a Sant’Aurelio. L’altare è uguale a quello della cappella di fronte dedicata alla Passione di Cristo: mensa ornata da marmo rosso di Verona e nero in forme geometriche, e alzato costituito da due semicolonne corinzie in marmo rosso di Verona addossate alla parete, sostenenti un timpano curvo spezzato con due angioletti in gesso alle estremità.
Si ripete anche la divisione della spazio tra le colonne: nella parte inferiore si trova la griglia in legno intagliato a motivi vegetali e dorato, che orna il sarcofago con reliquie di Sant’Aurelio e, sopra, si trova collocata la pala raffigurante Il martirio di Sant’Aurelio. Assegnata da Bartoli (1793) ad Antonio Triva e come tale a lungo descritta, in realtà è opera di Francesco Ferrari, come risulta della ricevuta del pagamento, rilasciata all’abate Luca Calzarelli il 26 agosto 1686, pubblicata dallo scrivente. Il contratto prevedeva anche l’esecuzione dei piccoli affreschi tra gli stucchi in questa cappella, in quella accanto dedicata al Beato Bernardo Tolomei e in quella di fronte dedicata alla passione di Gesù Cristo.
Le cattive condizioni in cui si trova rendono difficile la lettura, ma non impediscono di notare analogie con La deposizione di Cristo della cappella di fronte, che è una copia da Correggio, per quanto riguarda l’uso del colore. Il Ferrari, noto e apprezzato quadraturista ferrarese, ma di origine polesana (Fratta Polesine, 1634), rivela qui tutta la fatica provata nel cimentarsi con una narrazione. Sulle pareti laterali della cappella si trovano due tele di Francesco Mosca, secondo il Bartoli (1793), raffiguranti Il Beato Bernardo Tolomei che invoca la protezione della Vergine sul monastero di San Bartlomeo (a destra) e Sant’Aurelio in carcere confortato dagli angeli (a sinistra). Le pessime condizioni i cui si trovano impediscono di avere altri dati per la conoscenza del pittore lendinarese.
Lungo i pilastri della cappella salgono fino al sottarco eleganti, vistosi motivi fitomorfi, simili nel disegno e uguale nel modellato a quelli che ornano la seconda e la terza cappella a sinistra e la prima a destra. incorniciano tre piccoli affreschi raffiguranti due virtù sui pilastri: La Speranza (a destra) e La Carità (a sinistra), e un angioletto con cartiglio al centro del sottarco. Sono lavori, come si è detto, di Francesco Ferrari, come pure i tre affreschi sulla volta, incorniciati da altri stucchi con motivi vegetali e putti, di cui rimane leggibile soltanto quello centrale con fiori e palme.

I DIPINTIDI FRANCESCO MOSCA SULLA CONTROFACCIATA
Sulla controfacciata si trovano tre grandi dipinti su tela raffiguranti Il Beato Bernardo Tolomei che riceve l’abito monastico dalla Vergine (al centro), un Miracolo di Santa Francesca Romana (a destra), Il martirio di Sant’Aurelio (a sinistra). Sono opere del pittore Francesco Mosca di Lendinara secondo Bartoli, al quale la notizia era stata fornita molto probabilmente dall’amico Pietro Brandolese, l’erudito lendinarese autore di una breve ma molto utile descrizione dei dipinti di Lendinara. Il Brandolese ricorda il Mosca come cittadino di Lendinara che “per diletto” si era dedicato alla pittura, ma non sa fornire notizie precise. Riferisce che operava verso la fine del secolo XVII, che i suoi dipinti “mostrano feracità di invenzione e Franco maneggio di pennello, anzi che diligenza e dottrina” e ipotizza un suo annullato alla scuola del tenebroso Antonio Zanchi, probabilmente perché vede che non ama il colore. È conosciuta la sua attività a Lendinara dove dipinge anche per la chiesa della madonna del Pilastrello retta dagli olivetani che evidentemente lo presentano ai confratelli di Bartolomeo.
Oltre a queste tre grandi tele, vi sono elencate tra i primi dipinti pervenuti nell’inventario di Clemente da Fabiano del ! aprile 1660, ha eseguito le tele laterali della cappella della Passione di Gesù Cristo (prima a destra), raffiguranti l’Orazione nel’orto e la Flagellazione, quelle laterali della cappella un tempo di Santa Caterina e poi dell’Immacolata Concezione (terza a destra), raffiguranti San Luca e Santa Caterina e la Madonna col Bambino e Santa Caterina, e inoltre quelle ai lati della cappella di Sant’Aurelio (prima a sinistra), raffiguranti Sant’Aurelio in carcere confortato dagli angeli e il Beato Bernardo Tolomei che invoca la protezione della Vergine sul Monastero di San Bartolomeo. Questi dipinti di Francesco Mosca sono stati trascurati e lasciati andare perché ritenuti di scarso valore. Ora si trovano in pessime condizioni ed è impossibile l’analisi stilistica, per altro già difficile al tempo di Bartoli e di Branolse. Il restauro molto utile per la conoscenza del pittore. Un suo dipinto, raffigurante la caduta di Cristo sotto la croce è ricordato dal Thieme-Becker nel Palazzo Ducale di Mantova.

L’ANTICA SACRESTIA
L’antica sacrestia ha un elegante altare datato 1706 sul lato destro, realizzato da artigiani veneti. La mensa è ornata da un paliotto in tarsie marmoree, con due teste di cherubini in marmo di Carrara alle estremità. L’alzato è costituito da una cornice rettangolare con ornamenti a volute e riccioli in marmo rosso di Verona, fatte per accogliere una pala con l’Adorazione dei Magi, pervenuta dalla cappella di Baltun, attribuita a scuola emiliana del XVI secolo, che è stata affidata alla Pinacoteca dell’Accademia dei Concordi nel 1844.
Sul soffitto si vede un affresco raffigurante La Santissima Trinità. È un’opera modesta eseguita nel 1706 dai pittori padovani Giambattista Cromer e Francesco Buggio, interpellati dai monaci anche per dipingere i mobili della sacrestia, dare la patina alla croce che doveva essere collocata sul campanile e restaurare la suddetta Adorazione dei Magi.

IL CAMPANILE
Il campanile fu eretto su disegno di Alberto Schiatti, il maestro muratore ferrarese che collaborò con Bartloli Facino alla costruzione della chiesa. Fu terminato nel 1592.
Impostato su una bassa zoccolatura, si sviluppa imponente quasi come una torre, con canna liscia segnata in basso da un cornicione molto aggettante. Sulla parete parallela alla facciata della chiesa si aprono tre occhi e uno spazio che ospita il quadrante di un orologio fuori uso. Un altro spazio circolare destinato ad un altro quadrante di orologio si trova sulla parete verso sud. La cella campanaria è stata ricavata sopra una leggera cornice, aprendo su ogni lato una bifora con colonnina a balaustra in pietra d’Istria. Ospita quattro campane. La canna termina con un vistoso cornicione dentellato. Alla sommità su un terrazzo con balaustra in pietra d’Istria, è impostata, su tamburo rialzato, la cupola con lanterna.